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“L’anno dell’alpaca” raccontato dall’editor Tamara Baris

Giammarco Sicuro è un inviato speciale della redazione Esteri del Tg2.
In Rai dal 2008, ha seguito per la televisione pubblica italiana i fatti più importanti di cronaca italiana ed estera: dal naufragio della Costa Concordia al terremoto di Amatrice e Centro Italia, dagli attentati terroristici di Berlino, Londra, Manchester e Parigi, alla crisi umanitaria in Venezuela, fino alla pandemia da SARS-CoV-2.

È conduttore di Uno Mattina Estate e ha vinto il Premio giornalistico internazionale Marco Luchetta nella sezione Tv News.

L’anno dell’alpaca è il racconto del lungo viaggio di chi si ritrova, suo malgrado, dall’altra parte del pianeta quando l’Organizzazione mondiale della Sanità annuncia l’inizio di una pandemia. Mentre il mondo si chiude in casa, la cronaca personale di Giammarco Sicuro, inviato speciale della redazione Esteri del Tg2, fa conoscere al lettore le realtà e le vicende umane di tre continenti: dal Perù dei primi casi accertati, alla Spagna in lockdown. Dalla Corea del Sud divenuta un modello di gestione del virus, al dramma di Messico e Brasile.

L’anno dell’alpaca è, anche, e soprattutto, un diario irripetibile, affidato a un personale filtro dei ricordi, nato dalle necessità e mosso da una passione: raccontare il mondo. È un diario scritto e vissuto in compagnia di due peluche: un alpaca e un lama, che finiranno per trasformarsi in un prezioso, folle e surreale appiglio nei momenti più drammatici e dolorosi, ma anche in quelli, necessari, più spensierati e sorprendenti.

L’articolo che segue è stato scritto dalla nostra fantastica editor, Tamara Baris, che ha curato la pubblicazione, valorizzando lo splendido lavoro di Giammarco, che ci ha da subito colpito per la sua professionalità e spontaneità.

Non so se le cose raccontate nel libro siano tutte vere, quante altre invece siano inventate. Di molte di queste cose esistono foto che provano che siano accadute (la bottiglia di vino rosso caduta a terra, per esempio), per altre forse il lettore si chiederà se sia andata veramente così (il cane che lo morde al polpaccio). Ma anche se fosse vero Giammarco Sicuro è una di quelle persone che planano leggere sul mondo (o almeno ci provano, usando tutta la forza a disposizione) e riesce a farlo anche quando vede e racconta cose terribili. È uno che mantiene uno sguardo carico di meraviglia e si lascia attraversare dalle cose, anche quando è la paura che vince, come quando si stropiccia le mani nervosamente mentre ascolta un uomo, dall’aspetto tutt’altro che rassicurante, che gli racconta la sua vita («Il ragazzo ha un volto trasfigurato da troppe risse, un corpo pieno di elaborati tatuaggi e uno sguardo che potrei tranquillamente definire cattivo»).
Forse, lo fa perché è una di quelle persone che sa che «Lo munno iè nu battaglio de bellezza e de pauro» come scriveva il Tiziano Scarpa di Groppi d’amore nella scuraglia. Giammarco lo sa, credo che lo sappia bene, credo che lo abbia saputo sin da bambino e del bambino che è stato conserva, ancora, gli stessi occhi mentre ti guarda parlandoti e mentre osserva il mondo che ha intorno: uno sguardo curioso ed entusiasta, ma anche velato da una nota malinconica che lo rende subito umano, vicino a tutti (anche se perennemente sfuggente), soprattutto a quelli consapevoli che la vita è una battaglia tra bellezza e paura. Essenzialmente è quello.

L’anno dell’alpaca” è il racconto di un ragazzo coraggioso, pratico fino al midollo, figlio degli anni Ottanta, sognatore e anche un po’ romantico, anche se va in giro con la corazza tipica di chi ha perso qualche partita e si porta nello zaino il carico di qualche amore infelice (chi non se li porta dietro, del resto?), di chi  ha la capacità di abituarsi alle cose amare che sa che non si possono cambiare e di chi è dotato di parecchia autoironia («Il desiderio di alcool mi rende sempre capace di grandi imprese!»).
Giammarco dice alpàca (come dicono loro, ti risponde, se glielo chiedi): usa la seconda pronuncia ammissibile in italiano, forse perché mentre leggi le sue pagine, se sbirci le sue foto, se hai modo di chiacchierarci un po’ sotto l’aspetto un po’ distratto, capisci che c’è una testa che tende a macinare un po’ tutto quello che incontra: ha un animo gentile, ma anche battagliero e forse la scelta di quell’accento nasconde anch’essa un posizionamento, una nostalgia, il peso di qualcosa che in un anno carico di imprevisti, conoscenze, avvenimenti e avanzamenti di carriera lo ha fatto sentire anche molto solo e lo ha portato a eleggere come fidata compagnia degli alpaca di peluche: Esmeralda e Isabela.

Il mondo non è solo un posto di alpaca e lama felici.
Ma anche di feti di lama usati come oggetto benaugurante e venduti come souvenir su una macabra bancarella («In Bolivia, quando costruisci una casa, devi seppellire un feto di lama nelle sue fondamenta. Ce lo  deponi a mo di buon auspicio. Anzi, è meglio se ne prendi quattro, uno per ogni angolo»). Il mondo è un posto complicato, un posto in cui puoi ritrovarti improvvisamente catapultato in un viaggio che da vacanza diventa il viaggio di una vita, nel senso che ti porta forse esattamente dove speravi di andare da tempo (Giammarco Sicuro diventa nel 2020 un inviato della redazione esteri, che per uno che ha il mondo che gli scorre nel sangue e fa il giornalista credo che sia un fatto non da poco), ma ti allontana anche dalle certezze e da tutte le comfort zone e quindi ti fa scoprire cose che non sai di te e ti lascia un po’ scoperto («Sta diluviando e nonostante il K-way verde mi sto facendo un bagno completo»).

Nel manoscritto che mi sono ritrovata tra le mani (e sul quale sono felice di lavorare per questa piccola, ma agguerrita casa editrice), il suo 2020 Giammarco Sicuro non lo racconta in ordine cronologico, ma lo monta secondo un personale filtro dei ricordi: da appassionato di cinema e da artigiano di storie, sicuramente da uno che monta e smonta la realtà per mestiere, per renderla fruibile e interessante per gli altri.
Questi adorabili peluche sono uno dei sogni nel cassetto di Giammarco, queste pagine raccontano quello che gli è successo mentre noi eravamo seduti e fermi a casa, vivevamo perlopiù la maggior parte tra incredulità e dolore di fronte a uno schermo, diventato improvvisamente il nostro lavoro, i nostri affetti, il nostro notiziario quotidiano, il nostro ponte con tutto quello che avevamo lasciato fuori (e lontano).

Cuidado, Giammarco!
Sicuro, invece, ha attraversato il mondo: parte da una delle esperienze brasiliane di ottobre 2020 («Così, mentre annuisco perdendomi in quella distesa monocolore di giganteschi tronchi, rifletto su quanto assurdo sia tutto questo. La pandemia, la mascherina che indossiamo e che Gabriel porta ancora sotto al naso e questo mio viaggio iniziato otto mesi prima, in Perù e che ora continua, ininterrotto, sempre in Sudamerica ma questa volta a rincorrere storie di indios contagiati e braccati»), fa un salto indietro, a febbraio, tornando al suo incontro con Isabela («La compro, aggiungo decidendo arbitrariamente anche il sesso di quel peluche dal pelo cotonato») e ricorda con tono scanzonato (un tono che abbandona raramente) Mamma Rufina («”Questa è la tua mamma, dice a una ragazza tedesca accanto a me, si chiama Anita, vai con lei”. Un grande punto interrogativo compare sul mio volto. Sembra il gioco delle coppie, penso. Ma qui ti trovano direttamente una nuova madre. Curioso») e le sue incomprensibili raccomandazioni (Achachàq yàku).
Qualche volta, Sicuro mi ha accusato di essere troppo gentile nelle mie valutazioni, forse lo ha fatto anche quando ho letto il manoscritto, ma ho desiderato subito che questo testo trovasse una casa, perché la meritava. E perché il Giammarco del libro, almeno, ma chissà anche quello vero, è quel tipo di antieroe (anche un po’ buffo a volte) a cui qualsiasi persona intelligente e sensibile potrebbe voler bene dopo aver letto una ventina delle sue pagine. Perché? Perché racconta senza effetti speciali; tende a sminuirsi, ma prova gusto nel fare quello che fa; si butta a capofitto anche quando non ci capisce molto di quello che gli capita attorno, apparentemente governato da chi sembra saperne più di lui.

Tano, habla de ti
Giammarco ha la retorica giusta, un po’ sportiva, un po’ nazionalpopolare, di un figlio degli anni Ottanta («La soluzione che ho trovato per i collegamenti in diretta invece mi fa sentire una specie di MacGyver coreano») che però grazie a Dio conosce anche gli anni passati («La vetta è cento metri sopra di me ma è come se stessi scalando la Cima Coppi di un Giro d’Italia, in piena di crisi di fame») e vive i propri; uno che il mondo non se lo fa scivolare addosso ma cerca di assaporarlo nei limiti del possibile e delle distrazioni concesse da una certa sana oziosità (in alcuni dialetti del sud amore indica il sapore delle cose, forse perché la vita la devi un po’ assaggiare per capirla davvero), ma senza perdere mai il gusto di riportare qualcosa da raccontare, non solo per professione, ma anche per passione (è un narratore passionale, anche se vaga per il mondo e nella vita con un guscio protettivo bello compatto), per riportare a casa qualcosa di nuovo da dire agli altri («Anche per questo gli piace così tanto definirmi tano. È il modo in cui i suoi connazionali chiamano noi italiani. Viene da napoletano e fu qualcuno all’anagrafe del porto di Buenos Aires a inventarlo. Alla domanda da dove vieni? quella gente povera e disgraziata rispondeva quasi sempre napoletano, o in alternativa palermitano. Così, un po’ per pigrizia, quel qualcuno iniziò a scrivere tano sul documento di tutti coloro che arrivavano in Argentina parlando la nostra lingua»).

Questa storia ha trovato una casa: una casa per il ricordo di ritmi serrati di un anno di questi nostri tempi incerti con momenti di lavoro senza sosta («Per oggi, siamo alla terza diretta tv. E sono stanco. Ne faccio una decina al giorno, più i reportage che giriamo e poi montiamo. E così procede da un mese. Senza pausa»), famiglie improvvisate («All’argentino piace darmi consigli sulla mia vita privata. Ovviamente sono consigli non richiesti, ma li accetto con piacere anche perché, in un mese, lui e Joaquin sono praticamente diventati la mia nuova famiglia»), amuleti insospettabili («Doveva servirmi per raggiungere Machu Picchu e avevo pensato che un impermeabile fosse indispensabile se devi scalare delle montagne durante la stagione delle piogge») in giornate e mesi terribili («Stanno crescendo contagi e vittime! Ormai, nel Paese, si sfiora la cifra dei mille morti al giorno per covid-19 e la Spagna è diventata uno dei fronti più drammatici di questa pandemia»).

Le guance di Priscilla
«La fotografia è il linguaggio con cui puoi far vedere alla gente quello che hai visto tu», ho letto una volta mentre mi perdevo tra foto e pagine di Sebastião Salgado che raccomandava, anche in altre occasioni: «Quando immortali una storia, deve essere la tua storia, la tua scelta. Devi identificarti completamente con la tua storia, instaurare pazientemente una relazione con il soggetto che stai riprendendo».

Giammarco credo che sia in grado di farlo, che lo faccia in diversi casi molto bene: credo sia un buon occhio, un occhio spesso dotato di anima, penso sia uno che racconta storie, appassionato di immagini, ghiotto di ricordi da riportare a casa: magari stamparli, collezionarli per arredarci casa. In fondo, come dice una bellissima canzone di Battisti con le parole di Pasquale Panella (che citerò tutte le volte che vorrò fino alla noia di chi mi legge) «son le cose che pensano e hanno di te sentimento». Cose, per esempio, come due alpaca di peluche.

«Alla fine della vita», gli dico, «parlando di noi sotto una pergola in Toscana, o in una casa con il cortile a Pechino, potremo anche concludere che abbiamo sbagliato tutto, che ci siamo sbagliati su decine di cose. Ma vogliamo poter dire che ci siamo sbagliati sinceramente, per amore, per ingenuità. Non per interesse, per avidità, per tradimento». (Tiziano Terzani, “Un’idea di destino”)

Gemma Gemmiti“L’anno dell’alpaca” raccontato dall’editor Tamara Baris
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