Noi, che per mestiere raccontiamo storie, abbiamo capito che le storie, seppur ripetute, non sempre si conoscono davvero.
La storia di Anne Frank è nota, ne è nota la fine, è terminata in un campo di sterminio nazista quando la ragazza aveva 14 anni, fine feroce toccata a milioni di altri ebrei, correligionari di Anne.
Prima di venire arrestata e deportata, Anne aveva trascorso due anni in clandestinità, rinchiusa come una criminale, in un appartamento di Amsterdam.
L’Olanda era la speranza della famiglia Frank.
Árpád Weisz invece, al contrario di Anne, ha una storia che nessuno ripete perché pochi la conoscono. Ebreo ungherese, arriva in Italia per svolgere la sua professione: il calciatore.
Gioca a livelli discreti ma è come allenatore che Weisz trova la fama; allena quella che un tempo era l’Inter, e con la squadra milanese si laurea campione d’Italia a 34 anni, più giovane allenatore a vincere il titolo, record ancora imbattuto. Era il 1930, Árpád Weisz prosegue la sua carriera di allenatore in Italia fino al 1938, anno in cui Mussolini promulga le leggi razziali che escludono gli ebrei dalla società civile. Árpád, con la moglie e i due figli, fugge prima in Francia, poi in Olanda. Lì, riprende ad allenare con successo.
L’Olanda era la speranza della famiglia Weisz.
Poi, con l’occupazione nazista dei Paesi Bassi, la speranza di Anne e Árpád si sbriciola.
Anche la storia di Árpád termina in un campo di sterminio nazista. Anne uccisa dal tifo, Árpád soffocato in una camera a gas.
Il Male diventa banalità quando le storie diventano sfocate, vengono raccontate sempre meno, ripetute ma mai assimilate. È così che la Storia si ripete, i suoi orrori dimenticati e ripetuti.
Non è il calcio il problema di quei supposti tifosi che usano la foto di Anne come sfottò per gli avversari. La colpa è di chi pemette alle storie di svanire, come quella di Árpád Weisz, o di diventare argomento trito e mal raccontato, tanto di diventare banale, come quella di Anne.
Leggere alcune pagine del Diario prima del fischio d’inizio delle partite in stadi colmi di persone non sarà mai una soluzione, probabilmente neanche un punto di partenza.
L’avvio lo diamo noi, che raccontiamo storie per mestiere, lo danno famiglia e scuola.
Perché, come diceva tanti anni fa Altan, autore satirico di rara efficacia: “Questo deprecabile razzismo da stadio sta rovinando l’immagine di milioni di razzisti perbene”.
Teniamone conto, quando decidiamo di guardare il dito e non la luna.
Quando vogliamo pensare che il problema sia il calcio e qualche facinoroso da curva.
Noi, che per mestiere raccontiamo storie, abbiamo scelto semplicemente di continuare a farlo, per far conoscere Árpád Weisz e per non rendere più Anne Frank una vittima della banalità del male.
Elisa Malizia – Gemma Edizioni