Lo scorso febbraio, nella Biblioteca Europea di Roma, è stato presentato “Il restauratore di vetri”, un romanzo scritto da Bruno Tobia, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università Sapienza di Roma fino al 2011. L’autore vive a Roma, ha studiato il movimento operaio tra le due guerre mondiali e il processo di costruzione dell’identità nazionale in Italia, durante l’età liberale e l’epoca fascista, nelle sue varie declinazioni simboliche. Appassionato di fotografia, ha partecipato a diverse mostre collettive presso la Galleria Gallerati di Roma e pubblicato in volume una raccolta di fotografie della Sapienza.
“Il restauratore di vetri” è il suo primo romanzo.
Durante la presentazione del libro, dell’autore ha parlato la scrittrice Elisabetta Rasy. Ha partecipato all’evento anche lo storico Vittorio Vidotto. A leggere una scelta di brani è stata Valeria De Matteis.
Vittorio Vidotto ci racconta così la sua testimonianza:
“Trent’anni fa 30 anni fa presentavo “Una patria per gli italiani” pubblicato nel 1991, e di nuovo nel 1998 mi è accaduto di presentare anche “L’altare della patria”.
Con quello del 1991 il grande merito di Tobia era di aver scritto il primo, importante libro sulla pedagogia politica affidata alla realizzazione di monumenti e di riti patriottici, ossia a quell’insieme di iniziative che va sotto il nome di nation building. Quel che aveva colpito allora, oltre alla novità degli argomenti, era il registro insolitamente alto e una particolare qualità della scrittura, ammantata talora da una patina anticheggiante che lasciava sorpreso e ammirato il lettore.
Con “Il restauratore di vetri” parliamo invece di un romanzo, un genere su cui non ho nessuna competenza, salvo quella di un lettore curioso e disordinato.
Nemico di ogni spoiler, accennerò appena all’argomento del libro, partendo dal titolo: i vetri sono quelli di un presepe di Murano; il restauratore è uno dei protagonisti della seconda e più ampia parte del libro.
Infatti, dopo 5 quadri storici, dal ‘500 agli inizi del ‘900, si approda alla Roma del 1956, nei giorni della grande nevicata del febbraio di quell’anno. E il libro si trasforma pian piano in un giallo avvincente mentre intorno alla trama si dispiega un’affascinante rappresentazione del centro storico della città. Qui, accanto al pescivendolo Calamaro di Campo de’ Fiori, troviamo appunto il Restauratore di vetri.
Tobia ha completato con questo libro l’abbandono della sua attività di storico, ma non ci è riuscito completamente; non perché abbia saltuariamente fornito qualche altro contributo storiografico, ma perché le tracce di quel passato sono presenti anche oggi, per le ragioni che dirò più avanti.
Va anche ricordato, per fare ancora un passo indietro, che Tobia aveva affrontato la sfida della narrazione a cui si sentiva evidentemente chiamato – o vocato – nel volumetto “L’avventura di Garibaldi raccontata da Bruno Tobia” del 1997, uscito nella Laterza ragazzi. Era in buona compagnia con Le Goff, Duby, Savater. Qui l’autore partiva da una rivisitazione del racconto che di Garibaldi fa il maestro Perboni in “Cuore” di De Amicis.
L’aspetto che mi ha colpito più favorevolmente de “Il restauratore di vetri”, oltre ad alcuni episodi narrativamente trascinanti, come quello del Casino a Monte Carlo, è la descrizione della Roma degli anni ’50, con un dettaglio quasi documentario di luoghi e persone, di strade e piazze intorno al nucleo di Campo de’ Fiori. E come il tutto risulti trasfigurato dalla nevicata. Con una, a me pare, straordinaria capacità di far rivivere visivamente spazi, itinerari e monumenti: proprio i tre temi della “Patria per gli italiani”, indicati nel sottotitolo di quel libro. Il monumento di Giordano Bruno al centro della piazza, l’itinerario notturno sotto la neve da Campo de Fiori a via dell’Orso, poco meno di un chilometro, le strade strette come via dei Cappellari e l’improvviso aprirsi degli spazi come piazza Navona.
Nonostante la profonda diversità della scrittura, ovviamente molto lontana da quella storiografica, si riaffacciano nel romanzo “Il restauratore di vetri”, alcuni vezzi linguistici dell’autore: parole desuete, curiose, ricercatezze.
Uno dei protagonisti, che ci accompagna in tutto il romanzo, è la luce. Quella sfavillante di Napoli, quella riflessa dal crespo delle onde in una livida mattina a Monte Carlo, infine quella dei due fari del filobus lungo corso Vittorio Emanuele.
Il tema della luce e del suo modellare gli spazi, del cielo variamente presente, è forse l’aspetto che mi ha più incuriosito e affascinato del libro. Sempre ricorrente con parole precise ed evocative.
Del resto, Tobia è un fotografo, un bravo fotografo, al limite della professionalità. E cos’è un fotografo, se non uno che scrive con la luce, come si evince dall’etimologia della parola?
Tobia è molto attivo su Instagram, in cui posta quotidianamente le foto che scatta. Nei mesi scorsi ha fotografato il Covid, presentando un ampio e inquietante catalogo di negozi dismessi.
Qualche giorno fa ha pubblicato alcune foto di Villa Torlonia: il riflesso di un obelisco nello stagno, i riflessi sulle serre. Ho fotografato anch’io, diverse volte, quegli stessi luoghi, meta delle mie passeggiate, ma ho scorso quelle di Bruno con invidia e ammirazione.
Bruno Tobia si presenta nel suo profilo social come storico, trattino, fotografo. Da oggi, a buon titolo, deve aggiungere, trattino scrittore“.
Grazie a Vittorio Vidotto e alla sua professionalità.
Per conoscere l’autore del libro presentato, clicca su IL RESTAURATORE DI VETRI